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con Patricia Chiappini*
I processi di trasformazione che stanno investendo la società nel suo complesso e, in particolare, il mondo dell’economia e delle organizzazioni possono essere ricondotti a tre macro tendenze.
La prima è rintracciabile nel più ampio processo di terziarizzazione dell’economia che, iniziato a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ha modificato radicalmente il sistema culturale e produttivo delle organizzazioni: l’asse dei valori, prima quasi completamente centrato sulla produzione di beni materiali tende ad essere sempre più focalizzato sulla realizzazione di beni intangibili e servizi immateriali, in cui il fulcro dei processi di creazione sono le capacità intellettuali, le competenze e le conoscenze sia interne che esterne ai confini del sistema organizzativo.
Il secondo orientamento riguarda la crescente diffusione di forme flessibili e decentrate di organizzazione del lavoro – come i processi di ridimensionamento di grandi imprese attraverso l’esternalizzazione o il subappalto di funzioni e attività, le nuove forme di lavoro a distanza o di lavoro collaborativo in rete o, infine, le diverse forme di aggregazione professionale e lavorative, che nascono sia internamente sia al di fuori dei confini delle imprese – che stanno alterando radicalmente i modelli organizzativi del passato, rendendo certamente più complesso localizzare e valorizzare il capitale cognitivo e relazionale esistente ma, allo stesso tempo, aumentando la capacità innovativa e adattiva delle imprese di rispondere in modo dinamico alle mutate e più imprevedibili condizioni dei mercati attuali.
L’emergere di una domanda di mercato più ampia e articolata (nuovi prodotti e prestazioni, quantità variabili, tempestività) ha spostato, infatti, l’attenzione delle organizzazioni dalla «scala» alla «flessibilità» (1) : l’impresa ha tentato di superare la rigidità delle grandi dimensioni e delle economie di scala per trovare soluzioni organizzative più snelle internamente e aperte verso l’esterno. Si è assistito, pertanto, «a un declino delle strutture gerarchiche e all’affermarsi di strutture reticolari e policentriche» (2) , più adeguate ad operare su mercati complessi e segmentati. Tutto ciò ha accresciuto l’importanza delle funzioni di servizio rispetto alle funzioni di produzione. E’ emersa l’esigenza di valorizzare funzioni produttive immateriali (ricerca e sviluppo, marketing, logistica, etc.) e di sviluppare le funzioni finalizzate all’integrazione dell’intero sistema aziendale (pianificazione, innovazione, coordinamento e controllo, etc.): esse, infatti, tendevano un tempo ad essere inglobate in processi indistinguibili, perdendo la loro differenziazione (3).
Allo stato attuale, dunque, per le organizzazioni è fondamentale considerare strategiche le attività di gestione delle conoscenze e di valorizzazione del capitale intellettuale, quale leva su cui puntare per ottenere un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. Questo perché focalizzarsi sulla conoscenza e l'innovazione permette alle imprese, sul breve e medio periodo, di differenziare i loro prodotti o servizi e, sul lungo periodo, di costruire relazioni di mercato stabili.
La terza tendenza concerne lo sviluppo tecnologico e il modo in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno contributo a sostenere i cambiamenti descritti finora.
Volendo adottare una lettura “cognitiva” da una parte, e “sociale” dall’altra, della società contemporanea, tra tutte le definizioni che ne sono state date, le due che meglio aiutano in questa operazione sono rispettivamente «Knowledge Society» e «Network Society».
«Knowledge Society», in italiano “Società della Conoscenza”, è un’espressione che traduce in parole la centralità che il sapere, la conoscenza, hanno assunto nella società e nell’economia contemporanee, dove la capacità di governare, progettare, ottimizzare e divulgare conoscenza diviene il differenziale tra organizzazioni, tra prodotti, servizi e lavori.
Ripercorrendo l’evoluzione della “Società della Conoscenza”, si possono rintracciare tre milestones (4) : la prima tra il 1970 e il 1990, che chiamiamo società dell'informazione; la seconda dopo la capillare diffusione di Internet; la terza, che attualmente stiamo vivendo, che si concentra sul collegamento che esiste tra la estrema diffusione delle tecnologie e le repentine trasformazioni di tre domini sociali (vita quotidiana, sistemi di produzione, istituzioni e cultura).
Questa breve fotografia mostra tutta la complessità che il concetto di Società della Conoscenza assume nella terza milestone, ovvero nella nostra contemporaneità.
Le trasformazioni di cui si parla, fanno riferimento in modo tangibile ai corsi di vita degli individui, alle loro aspettative, progetti, bisogni lavorativi, al loro modo di pensare e di pensar-si e al modo di “fare” nei contesti professionali, di lavoro. In altre parole, ad essere messo in discussione, a rivoluzionarsi, è proprio quel processo di creazione di senso prima, e di conoscenza immediatamente dopo, che si pone alla base dell’agire sociale: il processo di apprendimento.
Infatti non a caso, nell'ultimo decennio abbiamo assistito ad una serie di cambiamenti che hanno investito lo scenario dell'apprendere e quello del formare. Parlare oggi di apprendimento e di formazione significa fare i conti, come detto, con uno scenario complesso: non possiamo più suddividere il processo di apprendimento in tre momenti - tempo per apprendere, di un tempo per fare e di un tempo per lavorare – separati e distinti, ma, anche grazie alle nuove tecnologie, i loro contorni si sfumano e si confondono.
Per avvicinarci ancora meglio alla complessità del contesto socio-economico in cui stiamo cercando di orientarci, è d’obbligo notare che nella stessa milestone, citata pocanzi, s’innesta anche la «Network Society»: questa “etichetta” porta in primo piano il concetto di rete, quale luogo privilegiato di produzione, consumo, comunicazione e organizzazione sociale nell’epoca contemporanea. Allo sviluppo della società in rete contribuiscono in maniera preminente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), sulle quali si costruisce un nuovo paradigma sociale denominato «informazionalismo» (Castells, 2001). Alla sua base vi è l’idea secondo la quale ciò che caratterizza la società contemporanea, rispetto al passato, non è tanto la centralità della conoscenza o dell’informazione, bensì l’accrescimento delle capacità di elaborazione, trattamento e distribuzione resi possibili dalle tecnologie.
Guardandola attraverso queste due lenti – della conoscenza e della rete – la società assume le caratteristiche di un reticolo dinamico e flessibile, sottoposta a continue “trazioni” tra il livello locale e quello globale, in cui le relazioni tra i nodi del sistema sociale (individui, gruppi, organizzazioni) avvengono in modo nuovo, superando i tradizionali confini spazio-temporali. E i processi che attengono alla conoscenza: generazione, trasmissione, diffusione? Si adeguando a questi ai nodi del reticolo, che appaiono come aggregati di risorse e di competenze, dove si incontrano saperi impliciti ed espliciti, e dove nozioni isolate vengono condivise e riscritte generando saperi formalizzati (Di Corinto, Tozzi, 2002).
La sfida che si apre oggi è pertanto quella di comprendere come tali reti si stanno evolvendo, quali dinamiche si stanno generando, e, non da ultimo, come possono gli individui “camminare” su questo reticolo, ripensando l’apprendimento e la formazione per non perdere la bussola della conoscenza.
Tra le figure più coinvolte da questi cambiamenti, all’interno delle organizzazioni, si trovano certamente i professionisti che si occupano di risorse umane: il questo speciale verrà riportato il quadro teorico e l’esperienza di HR Next, un percorso che cercato un punto vista per leggere e ripensare proprio il ruolo delle risorse umane nell’epoca della complessità.
I contributi che seguono individuano tre livelli di analisi a diversi livelli di ampiezza.
Il primo contributo, di Gian Piero Quaglino, tenta di fare luce sulle dimensioni del senso e del significato all’agire organizzativo e in particolare del ruolo delle risorse umane oggi.
Scendendo a livello organizzativo, il secondo contributo, di Alvaro Busetti, descrive quale sia l’impatto dell’introduzione del digitale rispetto all’attuale organizzazione del lavoro.
Infine, il terzo contributo presenta nuovi modelli e metodologie per la gestione dell’apprendimento, basati sul paradigma del TEL.
(1) Butera F., Il castello e la rete, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 17-22
(2) Failla A., Lavorare in un mondo che cambia, Milano, Etas Libri, 1994, p. 213
(3) Butera F., op. cit.
(4) Sartori L., La società dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 2012
Bibliografia
Butera, F. (1992). Il castello e la rete. Milano, MI, Italia: Franco Angeli.
Castells, M. (2001). Internet Galaxy. Oxford: Oxford University Press.
Di Corinto, A. T. (2002). Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete. Roma : Manifestolibri.
Failla, A. (1994). Lavorare in un mondo che cambia. Milano: Etas Libri.
Sartori, L. (2012). La società dell'informazione. Bologna: Il Mulino.
* PhD in Sociologia, si occupa di formazione e di ricerca in ambito organizzativo.
1. Da che cosa dipese la grande “rivoluzione” che portò la funzione del personale, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, al centro dei processi organizzativi? Che cosa fece sì che si determinasse quel significativo mutamento di ruolo da un profilo eminentemente gestionale a uno marcatamente orientato allo sviluppo delle risorse umane? Molti fattori vi concorsero, non c’è dubbio. Ma uno in particolare a me pare decisivo e cioè l’assunzione, da parte della funzione, di uno specifico compito nel farsi interprete attento e autorevole dello scenario esterno. È questo spostamento di attenzione alla complessa realtà dei fenomeni sociali con cui ogni contesto organizzativo doveva fare i conti, non potendo più ritenere di vivere in una qualche sorta di “splendido isolamento” e pertanto di essere al riparo da ogni influenza dell’ambiente, che fu decisivo per il suo ingresso nel nucleo ristretto di coloro che, ai vertici dei sistemi organizzativi, erano impegnati a definire vision e mission. La funzione del personale, in qualche caso, seppe valorizzare talmente bene questo compito di “vigilanza dello scenario” da ottenere un significativo riconoscimento e ritrovarsi ad assumere un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie di sviluppo, non solo di quelle rivolte alle persone, ma di quelle più generali organizzative.
Detto in altri termini, la grande rivoluzione della funzione del personale dipese anzitutto, in questa ipotesi di lavoro, dalla capacità e dal coraggio di fare proprio il compito di lettura e interpretazione dell’ambiente esterno, di raccolta e decodificazione dei “segnali deboli”, come si diceva allora, e di conseguente ridefinizione dei processi organizzativi interni: riallineamento, aggiornamento, innovazione, trasformazione. Questo ovviamente rappresentò un profondo ripensamento di competenze e comportamenti, un ri-orientamento di strumenti e metodi, nuovi e diversi approcci alla lettura dei fenomeni del clima, della cultura, dei valori: come dire un vero e proprio passaggio epocale. Se c’è una parola d’ordine capace di riassumere in sé la discontinuità di scenario da un lato e dall’altro la chiave di lettura di cui la funzione del personale si fece portavoce mi pare possa essere ritrovata nell’espressione, peraltro ben nota, dell’ambiente turbolento. L’espressione voleva indicare ciò che era percepito come un cambio radicale da un tempo e da un mondo di relativa stabilità a uno di crescente instabilità.
Potremmo allora chiederci, sempre per ipotesi di lavoro: come sono andate poi le cose nei quaranta anni che ne sono seguiti? L’ambiente esterno ha mutato ancora una volta aspetto? Abbiamo assistito a un nuovo transito, a una nuova fase? Certamente i transiti, i passaggi di “stato”, le discontinuità sono state più d’una ma nessuna in realtà ha rappresentato un ritorno al passato in termini di indebolimento dell’instabilità. La turbolenza semmai è cresciuta: ha accelerato, talvolta ha assunto un’intensità parossistica, è diventata endemica. Da qui l’insistenza sul “cambiamento permanente”. E della funzione del personale, divenuta ormai per tutti HR, che ne è stato? È proceduta di pari passo su questa linea? Ha saputo affinare, perfezionare, sofisticare le sue letture dello scenario? Ha saputo cogliere, se non anticipare, i complessi risvolti della turbolenza dell’ambiente esterno, le ricadute sull’ambiente interno, gli effetti “indesiderati” sulla vita organizzativa? Purtroppo la risposta sembra qui più complessa, perché quello a cui si è assistito è stata sicuramente una significativa crescita, da parte della funzione del personale, di qualità “metodologica” della sua azione (basti pensare alle tematiche della valutazione e della formazione) ma in molti casi ciò ha finito per assorbire gran parte delle energie destinate alla lettura dello scenario esterno, determinando così un abbandono del compito di “vigilanza” dei fenomeni macro, e un ripiegamento nell’ambito micro, una concentrazione a governare il presente con l’unico obbiettivo di garantire anzitutto una gestione ottimale delle risorse umane di breve periodo, anziché di investire su un orizzonte di sviluppo di medio e lungo periodo. Ciò ha fatto sì che, almeno dalla fine degli anni Novanta, la funzione del personale abbia iniziato a perdere “presa” sulla comprensione approfondita dei fenomeni di scenario finendo per ritrovarsi sempre più confinata nel ruolo specialistico che ovviamente le è proprio. Se dunque fossimo alla ricerca di una nuova stagione per la funzione del personale, per la funzione HR, dal momento che, come è evidente, il prolungarsi della situazione attuale di confinamento del ruolo specialistico finirebbe per tramutarsi in un percorso più involutivo che evolutivo, dovremmo a mio avviso riprendere il senso e il contenuto di ciò che rappresentò la grande rivoluzione di metà anni Settanta. Cioè una riconquista del presidio interpretativo dello scenario e una conseguente riappropriazione di un pensiero di indirizzo dello sviluppo organizzativo con nuove parole d’ordine e nuove formule.
2. La formula dell’ambiente turbolento ha fatto il suo tempo e già da un bel po’. Non è oggi che una tautologia. L’ambiente è per definizione turbolento. La turbolenza è il suo stato permanente, il suo carattere, il suo marchio. Quello che è accaduto (quello che abbiamo registrato negli ultimi trenta anni) è stato un progressivo affinamento di sguardo, da parte dei più attenti osservatori e studiosi, nel cogliere i molteplici volti e risvolti di questa turbolenza, i diversi aspetti che, di momento in momento, si imponevano all’attenzione, i segni particolare i che ne emergevano. Molti si sono dedicati a ciò, e disponiamo ormai di un quadro di lettura assai ricco e approfondito, sfaccettato e articolato. Se volessimo, sempre per ipotesi di lavoro, tentare di riassumere questo scenario in un’unica formula analoga a quella che è stata l’etichetta dell’ambiente turbolento, ci troveremmo certo in difficoltà. Ma in ogni caso, insistendo, potremmo ritrovarla a mio avviso nell’espressione, peraltro ben nota, della modernità liquida.
Diamo una rapida occhiata ai più significativi contributi a cui si può fare riferimento. Seguiamo il rincorrersi di etichette in ordine cronologico. Mi limito qui a una dozzina di contributi, quelli che mi paiono i principali, e li elenco semplicemente: 1986, La società del rischio (U. Beck); 1995, La vita in frantumi (Z. Bauman); 1996. L’intossicazione ermetica (J. Hilmann); 1999, La società dell’incertezza (Z. Bauman); 2000, La modernità liquida (Z. Bauman); 2002, La società eccitata (C. Türcke); 2004, Vite di scarto (Z. Bauman); 2006, L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag, G. Schmidt); 2007, Vite di corsa (Z. Bauman); 2010, La società della stanchezza (H. Byung-Chul); 2010, Guasto è il mondo (T. Judt); 2013, Eros in agonia (H. Byung-Chul).
Lo scenario che questi titoli illuminano è inequivocabile: la criticità del tempo presente è pervasiva, orientata in più direzioni, intricatissima. La domanda che allora si impone è una sola: si può sostenere a buon diritto che i contesti organizzativi siano stati e siano del tutto impermeabili alla “modernità liquida”? Si può sostenere che non ne abbiano subito l’influenza o l’interferenza, che i processi, così come la vita stessa delle persone, ne sia rimasta al riparo? O non si dovrebbe invece tentare di riflettere per comprendere se e come la modernità liquida abbia potuto contaminare dall’esterno l’ambiente interno dei più diversi sistemi organizzativi? Questi interrogativi sono ovviamente retorici: le organizzazioni vivono totalmente immerse nel tempo della modernità liquida. I segnali sono molteplici. Alcuni sono sintomi ben evidenti che hanno sollecitato già da tempo preoccupazione: indebolimento del legame tra individui e organizzazioni, demotivazione e disaffezione, navigazione a vista, accelerazione dei ritmi operativi e perdita di rapidità dei processi decisionali, addensamento degli interlocutori su ogni problema e incremento dei modi e dei tempi degli incontri e delle riunioni, indebolimento delle leadership e dei presidi di integrazione, e così via. Se volessimo riordinare i diversi aspetti di criticità della modernità liquida in alcune dimensioni principali con cui poi fare i conti per verificare se come e quanto essi possono rappresentare altrettanti punti di criticità all’interno dei contesti organizzativi potremmo tentare con il quadro nella figura 1.
FIGURA 1. Dimensioni critiche principali della modernità liquida
Che cosa emerge da questo quadro? In grande sintesi emerge in primo luogo fragilità, debolezza e precarietà come sentimenti attivati da una turbolenza che genera frammentazione, dispersione e spreco di ogni tipo di risorse, in particolare per ciò che qui ci riguarda, certezze, convinzioni e conoscenze da un lato e propositi, intenzioni e volontà dall’altro. In secondo luogo mobilitazione, messa in scena e frenesia, come connotati emozionali di comportamenti e condotte “alterati” dallo stato di connessione permanente imposto dalla turbolenza, di continuo ingaggio, e di ossessiva chiamata al coinvolgimento totale su ogni problema e questione così come su ogni obbiettivo e compito. In terzo luogo sconforto, sovraffaticamento e apprensione, come vissuti profondi di danneggiamento e perdita del piacere di fare le cose, di spegnimento della passione a fare, di ritiro dell’investimento e di costante preoccupazione. Infine disorientamento, insicurezza e indecisione come stati d’animo indotti da una turbolenza sempre più confusiva, disordinata e caotica che rende nebbioso il procedere, opaco il futuro e oscuro il senso della meta.
Riformuliamo allora gli interrogativi: ci sono segnali deboli o forti, e quali, di emergenza nella vita organizzativa dell’una o l’altra di queste quattro dimensioni? Ci sono “sintomi” e quali? In che misura chi si occupa di HR dovrà in qualche modo farsene carico impegnandosi a ripensare, qualche volta anche da capo la sua azione e i suoi strumenti, oltreché ovviamente i comportamenti e le competenze attese dalle stesse persone a cui azioni e strumenti si rivolgono?
3. Recuperare da parte della funzione HR una nuova padronanza di scenario è riaprire una nuova stagione, un next che restituisca quell’autorevolezza conquistata quarant’anni fa. Significa, a mio avviso, un cambio di passo del pensiero, una nuova prospettiva intellettuale e conoscitiva capace di fare i conti fino in fondo con la modernità liquida. Il che vuol dire abbandonare ogni semplificazione che si sarebbe tentati di adottare per resistere alla complessità problematica che dall’ambiente esterno precipita nei contesti organizzativi, pur restando quasi sempre in ombra, annidata nel tessuto della vita organizzativa, nella trama implicita degli eventi in cui sono coinvolti gli attori organizzativi.
Se si vuole essere capaci di un’analisi sufficientemente disincantata nel valutare ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, si potrebbe cominciare con il riconoscere, ne sono convinto, che molte delle “azioni positive” intraprese dalla funzione HR all’interno del perimetro della gestione e sviluppo delle risorse umane, non abbiano saputo ottenere tutti i risultati che si ottenevano: molte delle iniziative formative, ad esempio, indirizzate ad aggiornare e innovare competenze e capacità che tanto hanno insistito sulla parola d’ordine del benessere organizzativo hanno poi trovato debole radicamento per non aver approfondito adeguatamente e criticamente le ragioni del malessere. Occorre prima padroneggiare il malessere in tutti i suoi risvolti, altrimenti ogni azione ispirata dall’ “ottimismo della volontà” perde molta della sua efficacia: non bastano ricette che enfatizzino lo slancio del “cuore oltre l’ostacolo” siano esse, per fare esempi ben conosciuti, il potenziamento o l’autoefficacia o la resilienza o quant’altro, per far la differenza, per produrre un cambiamento, se non si è consolidato un quadro di analisi consapevolmente impegnato a sfidare il “pessimismo della ragione”.
Al tempo della modernità liquida le cose sono purtroppo assai complicate: nessuna rassicurazione basta a se stessa, se prima non sono state approfondite le buone ragioni che possono convincere del senso di applicare nuove ricette, se non si sono chiariti gli ostacoli del passare dal dire al fare, se non si sono prese le misure di ciò che, sottotraccia, perdura come ambivalenza, perplessità, resistenza. Non bastano cioè le buone parole a costruire buone pratiche, né è sufficiente enunciare un dover essere per ottenere, da parte degli individui, il poter e il voler essere. Al tempo della modernità liquida tutto appare sfuggente, fluido, quasi inafferrabile. Ciò che è indispensabile è, prima di ogni nuova ricetta, un solido ancoraggio di pensiero per ottenere una più alta determinazione nell’azione. Proviamo allora a formulare una prima proposta su ciò che potrebbe essere questo “solido ancoraggio di pensiero”, dicendo che si tratta anzitutto di fare i conti con competenze, capacità, ma soprattutto qualità personali che occorre padroneggiare al meglio al di là del quadro ampiamente noto delle cosiddette hard e soft skills che evidentemente non è più sufficiente a esaurire in sé il saper fare e il saper essere che è necessitato dai tempi. Proviamo a riprendere le dimensioni critiche della figura 1 ritrovando per ciascuna, nella figura 2, quelle “doti di pensiero” che possono consentire di fronteggiarle.
FIGURA 2. Doti di pensiero utili per fronteggiare la modernità liquida
Il tempo della modernità liquida è un tempo di forti discontinuità. Se i confini dei contesti organizzativi ne sono permeabili le risposte alle più differenti problematiche non potranno che essere trovate padroneggiando al meglio un pensiero della discontinuità. E se poi si ha in mente che tra le forze che accelerano la discontinuità vi è in primo luogo la tecnologia, saper pensare in profondità le ricadute sul terreno specifico dei comportamenti e delle competenze degli attori organizzativi così come su quello degli indirizzi e delle soluzioni di gestione e sviluppo delle risorse umane, non potrà che risultare decisivo.
Così, per stare a questo tema, il quadro di doti personali proposto nella figura 2 va visto anch’esso in discontinuità con l’assetto consolidato di quelle hard e soft skills che si rivelano una volta di più non sufficienti a rispondere alle questioni poste dalle nuove turbolenze. Al di là dei tradizionali saper fare e saper essere occorre dunque ribadire la necessità di un saper pensare capace di esprimere una nuova e diversa “dotazione” di qualità personali da padroneggiare al meglio. Occorre un pensiero sicuro di sé e determinato, capace di procedere con dinamismo e forza nei suoi propositi, di trasformare i vincoli in opportunità, di saper andare “fino in fondo”; occorre un pensiero capace di equilibrio non tanto come moderazione o misura, ma anzitutto come abilità a sfidare i limiti, dotato di un grande senso di realtà, di severità e rigore, nel prendere ogni volta veramente “le cose sul serio”; occorre un pensiero lucido e lungimirante, capace di districare le complessità sapendo andare all’essenziale dei problemi, sapendo cogliere “il cuore dei problemi e il nocciolo delle questioni”; occorre infine un pensiero vigile e al tempo stesso ingaggiato dal cambiamento, capace di inventiva, di escursioni in territori “non noti e non soliti”.
Se questa può essere una nuova dotazione di competenze imposta dallo scenario della modernità liquida, le ricadute saranno su ogni tema che coinvolga la gestione e lo sviluppo delle risorse umane: dalla formazione alla valutazione, dalla selezione al presidio del clima, e così via. Alla funzione HR spetta il compito di ripensare se stessa, il proprio ruolo, e la sua azione per una nuova stagione, per un next che la riveda al centro dei processi organizzativi, da protagonista nella definizione delle linee di indirizzo e da interprete autorevole dei mutamenti dell’ambiente esterno.
Premessa
Le tecnologie dell’informazione (Internet, il web 2.0 e la cosiddetta “terza piattaforma” (1) …) stanno modificando radicalmente la società, il modo di vivere, lavorare e fare azienda perché modificano il modo di produrre e gestire le informazioni e quindi intervengono altrettanto radicalmente su modi, costi, tempi e competenze necessari alla produzione, gestione e utilizzo delle risorse che sono basate su di essa.
Le risorse basate sull’informazione, note come risorse invisibili (o intangibili (2)) , sono fondamentali per il buon funzionamento (e quindi per il successo) di Aziende e Pubbliche Amministrazioni, tra esse: la fiducia degli utenti, l’immagine del brand, la capacità di gestire sia persone e processi interni che relazioni e processi verso clienti, fornitori e partner.
Le risorse invisibili più rilevanti come la reputazione aziendale, la conoscenza del mercato o le competenze interne, sono “incorporate” nelle persone che interagiscono con l’organizzazione (clienti, dipendenti, rete commerciale…), sfuggono alla gestione esplicita dell’organizzazione e vengono trasmesse sui canali formali e informali a disposizione degli individui: passaparola, social networks, posta elettronica, riunioni, incontri diretti con clienti, colleghi, fornitori e partner. Per questo motivo la gestione delle persone e dell’organizzazione del lavoro, proprio a causa della tecnologia, diventa un fattore sempre più critico per il successo delle organizzazioni.
Risorse invisibili e processi operativi: perché la trasformazione digitale del lavoro
La rilevanza delle risorse basate sull’informazione nelle economie avanzate è dimostrata dal fatto che più del 60% della forza lavoro e oltre il 70% del costo del lavoro in paesi come Stati Uniti, Germania, Inghilterra e Francia sono dedicati ad attività basate sull’informazione (3) .
Le risorse invisibili possono essere suddivise in tre tipologie: ambientali, interne e aziendali.
Le risorse ambientali sono l’input dell’ambiente verso l’organizzazione, la quale le elabora internamente integrandole con le informazioni che emergono dai processi (risorse interne) per generare le informazioni (i.e. risorse) aziendali da trasferire all’ambiente secondo gli obiettivi/compiti dell’organizzazione.
Così ad esempio, nel caso venga rilevato dagli utenti un problema in un prodotto/servizio (informazione ambientale), le informazioni relative vengono raccolte e analizzate alla luce delle informazioni interne, vengono apportate le modifiche necessarie al prodotto e/o ai processi interessati e le informazioni che ne derivano, i.e. la soluzione del problema, vengono comunicate agli utenti interessati (informazione aziendale), contribuendo a modificare soddisfazione degli utenti, immagine del brand, etc.. Questo tipo di interazione tra utenti e organizzazioni è cambiato radicalmente nella forma e nella sostanza con il diffondersi delle nuove tecnologie, ad esempio dei social networks.
In generale sono i processi interni a generare il contenuto da trasferire all’ambiente e quindi ad avere un ruolo chiave nel ciclo con cui l’organizzazione elabora l’input ambientale e reagisce (i.e. comunica) efficacemente verso l’ambiente; l’accelerazione di questo ciclo prodotta dalla tecnologia sta rapidamente trasformando i processi interni, e quindi il lavoro e la sua organizzazione, nell’anello debole della catena con cui le organizzazioni interagiscono con l’esterno; tempestività, qualità e accuratezza delle informazioni prodotte dai processi interni, devono necessariamente essere tali da generare informazioni (e quindi interazioni) aziendali verso l’ambiente coerenti nei tempi e nei modi con le aspettative di un contesto ormai abituato ai tempi e modi della nuova comunicazione interpersonale, come per esempio quella dei social network, pena la marginalizzazione (se non la scomparsa) dell’intera organizzazione.
La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda?
Se l’organizzazione vuole essere in grado di interagire adeguatamente con l’ambiente è abbastanza evidente che l’uso, anche internamente all’organizzazione, degli stessi paradigmi tecnologici utilizzati nell’ambiente può essere d’aiuto, a condizione che si tenga presente che l’obiettivo non è tanto l’utilizzo della tecnologia in quanto tale, quanto la capacità dell’organizzazione di reagire alle informazioni ambientali nei modi e nei tempi consentiti dalla tecnologia.
Non è quindi questione di uso di una tecnologia, ma di uso delle tecnologie disponibili in funzione degli obiettivi (di servizio) da raggiungere. La tecnologia è un fattore strategico di successo solo a condizione che l’organizzazione abbia la chiara percezione dell’esistenza, del ruolo e dell’importanza delle proprie risorse intangibili e un’altrettanto chiara strategia su come utilizzarle per il conseguimento dei propri fini.
È la gestione delle risorse invisibili, soprattutto interne per i motivi visti sopra, e non la tecnologia (anche se tramite la tecnologia) a essere un fattore chiave per l’affermazione dell’organizzazione nel proprio ambiente e nel nuovo contesto tecnologico: mercato per le aziende, società per le pubbliche amministrazioni.
Perché il lavoro non è più un posto?
La fabbriche nascono con la prima rivoluzione industriale come luogo dove poter disporre economicamente e simultaneamente dei fattori di produzione necessari alla produzione di beni e/o servizi: forza lavoro, macchinari, materie prime, competenze delle persone.
In origine lo stessa valeva per le informazioni (le risorse invisibili): prima dell’introduzione delle tecnologie informatiche la gestione dell’informazione coincideva con la gestione fisica dei suoi supporti. Così le informazioni venivano raccolte su carta, sintetizzate ed elaborate in documenti sempre cartacei e conservate negli uffici aziendali. Conseguentemente, anche le attività concettuali potevano essere svolte solo dove (i supporti de) le informazioni e le competenze dei colleghi erano disponibili: negli uffici.
Questo non è cambiato quando, in tempi più recenti, le informazioni, anche se in formato digitale, venivano (e in gran parte vengono ancor oggi) gestite utilizzando infrastrutture informatiche private accessibili per la maggior parte, per legittimi motivi di costi e di sicurezza, solo all’interno degli edifici aziendali. Tutti i processi produttivi, di beni e servizi, la loro organizzazione e la gestione delle relative informazioni sono stati progettati a partire da questi presupposti.
Con la trasformazione dell’economia (globalizzazione, delocalizzazione, terziarizzazione,…), risulta sempre più difficile concentrare l’intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio in uno stesso luogo fisico e sotto il governo della stessa organizzazione: sempre più spesso un singolo processo coinvolge risorse tangibili e intangibili (e quindi anche persone) collocate in sedi diverse e appartenenti o meno alla stessa organizzazione (5).
In questo caso sedi e strutture tecnologiche private si trasformano in barriere, anche di costo, all’evoluzione dei processi e alla trasformazione in senso competitivo dell’organizzazione, trasformando il poter/dover disporre in uno stesso luogo fisico di tutte le informazioni necessarie allo svolgimento delle attività (comprese le competenze delle persone) da vantaggio economico a generatore di inefficienza se non di malfunzionamenti. Una buona misura di questo fenomeno è l’aumento esponenziale delle attività di comunicazione (riunioni, trasferte, e-mail, video conferenze, etc…) tra sedi, funzioni e unità organizzative della stessa azienda, di clienti, fornitori e/o partner, problematica che affligge la quasi totalità delle organizzazioni.
Le nuove tecnologie, essendo basate su standard pubblici (Internet) e garantendo livelli di sicurezza ormai adeguati all’uso aziendale, si propongono come una valida soluzione consentendo di affrontare e risolvere in maniera soddisfacente, anche dal punto di vista dei costi oltre che dell’efficienza, il problema della gestione e dell’utilizzo delle informazioni (e quindi delle risorse invisibili) quando i processi si svolgono tra luoghi e organizzazioni diverse. La loro adozione si rivela quindi necessaria nello svolgimento della maggior parte delle attività lavorative (i.e. quelle legate al trattamento delle informazioni) nel nuovo contesto economico; l’affermarsi di nuove forme di organizzazione del lavoro come lo smart working e il lavoro agile è tra i primi segni di questa trasformazione.
Perché la tecnologia è solo una (piccola) parte della risposta
Tuttavia, se le tecnologie possono essere uno strumento valido e necessario per gestire le informazioni legate anche ai processi interni, esse non sono sufficienti per garantire un’interazione adeguata alle aspettative dell’ambiente; esse incidono sui tempi e i modi di gestione e trasferimento delle informazioni, ma solo indirettamente sui tempi e la qualità dei processi nel loro insieme, fattori che sono invece fortemente connessi al modo in cui è organizzato il lavoro e gestita l’organizzazione, a cominciare dai processi decisionali.
Poter trasferire le informazioni in frazioni di secondo, quando livelli e tempi di decisione rimangono immutati, genera frustrazione nel personale, rende inutili i vantaggi resi possibili dalla tecnologia e uno spreco i relativi investimenti.
Adottare nuove tecnologie di comunicazione (e di gestione dell’informazione in genere) può infatti risultare controproducente dal punto di vista del risultato se non si mette mano ai processi e alla gestione delle persone nel loro insieme, riprogettandoli attorno ai nuovi modi di comunicare e gestire le informazioni, ovvero se processi e organizzazione non sono coerenti con i nuovi modi e strumenti del comunicare all’interno dell’organizzazione e tra le organizzazioni, se cioè non si passa dalla semplice adozione delle tecnologie digitali alla trasformazione digitale del lavoro.
(Conclusioni)
L’intera economia sta subendo una profonda trasformazione legata alla diffusione delle tecnologie digitali rese disponibili dalla rete. Questo processo tocca essenzialmente la gestione delle risorse intangibili che hanno nell’informazione la loro materia prima e che costituiscono una parte crescente del mix di prodotti e servizi erogati da Aziende e Pubbliche Amministrazioni
L’interazione delle organizzazioni con gli utenti muove dalle informazioni originate nell’ambiente e si chiude con le informazioni trasmesse dall’organizzazione all’ambiente frutto delle attività interne, del lavoro e della sua organizzazione.
Affinché questa interazione sia tempestiva e qualitativamente adeguata è necessario che il lavoro e la sua organizzazione subiscano una trasformazione analoga a quella intervenuta nell’interazione tra l’organizzazione e il mondo esterno. Questa trasformazione non può essere limitata alla sola adozione di tecnologie simili alle tecnologie utilizzate dagli utenti, ma deve prevedere necessariamente anche il ridisegno dei processi e dell’organizzazione attorno alle possibilità offerte dalle tecnologie; smart working e lavoro agile sono solo i primi segni di questa trasformazione.
(1) http://en.wikipedia.org/wiki/Third_platform
(2) Il ruolo delle risorse invisibili nella gestione aziendale è stato ben descritto alla fine degli anni ’80 da Y. Itami
(3) SI tratta della somma delle attività codificate di elaborazione di informazioni (attività di tipo transattivo: es. impiegati, cassieri di banca,…) e delle attività che richiedono che richiedono interazioni con altri, giudizio indipendente o comunque non standardizzabili (es. manager, professionisti, venditori,…).
(4) Per ambiente intendiamo il contesto in cui l’organizzazione si muove: utenti, partecipanti, fornitori, partner, istituzioni, parti sociali,…
(5) Da uno studio del CEB (http://www.cebglobal.com/) basato su circa 23.000 interviste di dipendenti di aziende dei paesi industrializzati risulta che, nel 2012, sono significativamente aumentati: le attività che richiedono collaborazione attiva (67%), il numero di persone coinvolte nei processi decisionali (50%), il numero di colleghi di altre sedi con cui collaborare (57%). Risulta inoltre che il 60% di essi collabora con più di 10 persone, mentre il 65% gestisce relazioni con persone esterne all’azienda nello svolgimento delle proprie attività
con Michela Fiorese* e Patricia Chiappini**
Premessa
Quando le cose cambiano molto velocemente l’esperienza può diventare un nemico ed è chiaro che il mondo si sta radicalmente trasformando. Dare un senso a questo ambiente ‘turbolento’ e ‘liquido’ non è facile, ma è evidente che le aziende devono avere il coraggio di generare discontinuità, rinnovando il modo in cui viene gestito il lavoro e lo sviluppo delle persone.
Come hanno risposto le Risorse umane di fronte a questi cambiamenti? Hanno saputo cogliere le nuove esigenze delle organizzazioni, ripensare il loro ruolo, mantenere la leadership sui processi di apprendimento e di sviluppo?
Come già illustrato, nell’arco di un decennio siamo passati dalla «Knowledge Society» - in cui la capacità di, progettare e governare il sapere organizzativo rappresentava il valore aggiunto di una azienda, alla «Network Society» - che mette al centro la messa in rete dei saperi, il coinvolgimento trasversale delle persone e la creazione di nuove conoscenze.
Oggi stiamo attraversando una fase in cui entrambi questi modelli vanno compresi ed esplicitati attraverso l’acquisizione di nuove categorie, competenze, nuovi modelli e strumenti. Concretamente l’HR deve ripensarsi se vuole continuare a supportare persone e organizzazioni per generare apprendimento e sviluppo.
HR Next
Entropy Knowledge Network, ha progettato ed erogato la prima edizione HR Next: un percorso, appena concluso, nato dalla presa d’atto di questa esigenza e dedicato a Manager di linea, HR manager ed HR specialist che si occupano di formazione, organizzazione e sviluppo, HR Partner, che sono chiamati a promuovere il cambiamento in azienda.
Il percorso ha previsto un Kick off meeting iniziale in cui è stato presentato il progetto e in cui sono stati preannunciati i temi di ‘scenario’, oggetto del primo modulo. Ciascuno dei tre moduli previsti è stato anticipato da contributi forniti tramite la piattaforma di social collaboration che ha supportato la didattica. In questo modo è stato possibile sfruttare l’aula soprattutto come luogo di sperimentazione, di contaminazione e di co-creazione. Infine i partecipanti hanno elaborato una idea/proposta innovativa riguardante lo sviluppo organizzativo, presentata durante una occasione finale di celebration del percorso.
HRnext si è poneva un triplice obiettivo:
Nuovi modelli per l’apprendimento
In questa sede, ci soffermeremo in particolare sul terzo modulo di HR Next, dedicato al TEL (Technology Enhanced Learning), ovvero un insieme di metodologie formative, basate su particolari tecnologie digitali, che enfatizzano l’interattività del processo di apprendimento, la sperimentazione attiva dei saperi e la costruzione comune delle conoscenze. Si tratta di soluzioni che ampliano e arricchiscono le potenzialità offerte dall’e-learning e più in generale dagli strumenti della Rete (spesso integrandosi con questi ultimi), ma che possiedono specificità tecniche e metodologiche originali capaci di potenziare l’apprendimento.
Pur senza negare l’importanza di focalizzare l’attenzione sull’individuo in quanto produttore e portatore del sapere, la tecnologia rappresenta una risorsa strategica. Le tecnologie contribuiscono a determinare il modo in cui vediamo noi stessi, il mondo e il modo in cui ci rapportiamo ad esso. L'evoluzione del pensiero è anche evoluzione delle tecnologie che vi sono legate, e pertanto il problema non è prendere posizione nella diatriba "tecnologia sì/tecnologia no", ma scegliere di volta in volta le tecnologie più efficaci per lo sviluppo della conoscenza. I nuovi media e internet, dal punto di vista dei processi di apprendimento, possono essere considerate vere e proprie tecnologie cognitive (Calvani, 1999), ovvero dispositivi auto-alfabetizzanti in grado di coinvolgere i processi interni della mente: esse possono contribuire a far emergere nuove forme di organizzazione del pensiero, nuovi modi di apprendimento e nuove modalità di comunicazione e collaborazione interpersonale. Ancora una volta ha senso parlare di “Network Knowledge Society”: la rete si afferma cioè come un vero e proprio ambiente di apprendimento all’interno del quale si verificano attività ed esperienze che sottendono dinamiche di apprendimento, non solo di tipo formale (come nel caso in cui internet è utilizzato per la costruzione di percorsi di formazione e-learning), ma anche e soprattutto di tipo informale (Cross, 2007).
L’urgenza che si registra ha una duplice prospettiva:
Per questi motivi, il concetto di “Maturità digitale” assume forse il peso maggiore nel percorso di rivoluzione cui la formazione deve tendere: essa fa riferimento al rapporto che sussiste tra ‘forme di pensiero’ – il modo in cui gestiamo le informazioni e le conoscenze, le analizziamo, prendiamo decisioni e facciamo problem solving – e le nuove tecnologie.
Per questo, è di facile comprensione che la Maturità Digitale trascende dal “contenuto” del lavoro, e che ogni professione contiene, ora che ci troviamo nella “Network Knowledge Society”, un pacchetto di competenze e di processi legati alla gestione della conoscenza che hanno decisamente cambiato forma rispetto al passato. Ne deriva che anche il modo in cui si acquisiscono le conoscenze e si attivano processi di apprendimento, deve trasformarsi, e quindi devono essere studiati non solo nuovi ambienti di apprendimento, ma anche nuovi strumenti che facciano da ponte per raggiungere la Maturità Digitale.
Le nuove metodologie formative sono sempre più basate su tecnologie digitali che enfatizzano l'interattività del processo di apprendimento, la sperimentazione attiva dei saperi e la costruzione comune delle conoscenze. Si tratta di soluzioni che ampliano e arricchiscono le potenzialità offerte dal semplice – e forse per certi versi obsoleto – e-learning e più in generale dagli strumenti della rete (spesso integrandosi con questi ultimi), ma che possiedono specificità tecniche e metodologiche originali.
Da un punto di vista formativo, il Technology Enhanced Learning offre una serie di vantaggi che vanno dalla possibilità di personalizzare l’apprendimento, svincolandolo dai limiti spazio-temporali della formazione tradizionale, alla possibilità di creare spazi di condivisione e collaborazione anche per numeri molto elevati di persone, fino alla possibilità di sperimentare, ovvero simulare fenomeni complessi.
Inoltre, grazie a soluzioni che enfatizzano engagement e gamification, è possibile facilitare il coinvolgimento delle persone e creare le condizioni perché esse producano nuove idee e conoscenze.
FIGURA 3. Dimensioni del Technology Enhanced Learning
Il TEL dimostra che la distinzione tra apprendimento formale e informale sia sostanzialmente superata: gli ambienti e i dispositivi tecnologici possono essere usati per integrare, arricchire e rendere più interessanti i processi di acquisizione delle conoscenze.
Il TEL produce un cambiamento nel modo di concepire alcuni degli aspetti fondamentali della formazione tradizionale, come ad esempio:
Conclusioni
Tra poco tempo, la tecnologia non sarà più, probabilmente, solo uno dei mezzi, ma il binario attraverso cui passeranno tutte le dimensioni sociali, gestione della conoscenza, processi di apprendimento, formazione e lavoro compresi.
La domanda che è giusto porsi a questo punto è: sopravvivrà la “Network Knowledge Society”, delineata nella prima parte, oppure verrà scalzata da un altro tipo di “forma sociale”? È possibile ipotizzare il suo nome, muovendosi tra la techno-fantasia e la ipotesi sociologiche?
Probabilmente le reti di cui è composta la attuale, le mappe reticolari, si infittiranno a tal punto che diventerà un unico piano, fluido, in cui le dimensioni di tempo e spazio si perderanno, fino ad annullare nodi e reticoli in favore di una onnipresente “aurea tecnologica”. I nostri “luoghi” – dalle case, alle città – saranno pieni di oggetti che dialogheranno tra loro. Sicuramente il sistema sociale verrà de-strutturato e perderemo i punti di riferimento classici che già ora vacillano, per adottarne di nuovi. Verosimilmente, anche l’elaborazione di beni e servizi si scardinerà dal sistema produttivo per come lo conosciamo oggi, e di conseguenza il lavoro si trasformerà in una attività individuale, in cui ognuno si autogestirà (Allegri, Ciccarelli, 2013) e saremo tutti autonomi – o intelligenti artificialmente – nella ricerca delle risorse e delle conoscenze necessarie, per creare quello di cui avremo bisogno.
Per parlare di apprendimento si dovrà ribaltare tutta la teoria finora validata, ampliarla, estremizzarla: il Costruttivismo, il paradigma secondo cui ognuno costruisce attivamente la propria conoscenza, lascerà forse il passo al Connettivismo (Siemens, 2005), che implica la capacità di superare le reti già esistenti e, sfruttando il “caos” prodotto dalle connessioni spontanee tra utenti e risorse, ridefinirà l’apprendimento come un processo di riconoscimento e di configurazioni di informazioni.
In questo contesto nasceranno spazi di interattivi, orientati alla soluzione di problemi, alla ricerca collaborativa, che metteranno al centro il learner, un soggetto sempre più attivo di una comunità di apprendimento, in cui riuscirà a portare un suo “tessuto” e che si renderà responsabile della sua presenza. Ogni learner potrà creare non più solamente la propria conoscenza, ma anche i propri contenuti, basandoli sui propri fabbisogni effettivi, e decidendo addirittura le strategie, in uno scenario di strutture e configurazioni - “interagibili” e modificabili – che favoriranno l’accesso all’informazione condivisa e l’uso di strumenti individuali ma collaborativi.
Continuando con ipotesi immaginifiche, questa società potrebbe chiamarsi “Wired Sharing Society” – società della condivisione cablata – e sostituire la neonata “Network Knowledge Society” nel giro di qualche anno.
Questo esercizio logico, che oscilla tra la sociologia e la futurologia, può essere utile non solo, e non tanto, per capire dove stiamo andando, ma dove siamo in questo momento.
Sia che resista la “Network Knowledge Society”, sia che la “Wired Sharing Society” abbia un repentino sopravvento, resta un quesito da risolvere: che ruolo, che competenze, che strumenti avranno coloro che si occupano di risorse umane?
In entrambi gli scenari, la figura dell’HR dovrà subire un’evoluzione significativa. Quello che possiamo osservare è che il suo ruolo è passato dal tradizionale monopolio della procedura, alla mediazione e all’accompagnamento, evolvendosi fino a diventare una figura di processo, polivalente. Questa evoluzione però è stata di tipo adattivo e non attivo: gli HR si sono trovati in un setaccio metodologico in cui può passare solo chi ha “raffinato” le proprie competenze e conoscenze. Il “sistema”, infatti, ha posto in essere una serie di strategie, più o meno riuscite, per accompagnare i cambiamenti sociali nel campo della gestione delle risorse e delle conoscenze, ma senza soffermarsi un momento sulla figura e sul ruolo dell’HR.
Essi operano su un terreno che cambia costantemente forma e sostanza, e per sopravvivere devono dotare sé stessi di quegli strumenti individuati come chiavi di cambiamento: strumenti concettuali, nuove competenze, maturità digitale.
Strumenti concettuali. Gli HR dovranno dotarsi di nuovi strumenti concettuali, necessari per rapportarsi con i nuovi saperi e con le nuove crucialità proprie dell’approccio sistemico alla formazione e alla gestione della conoscenza contemporanea, nonché ai nuovi learners che stanno acquisendo autonomia e coscienza di auto-costruzione. Devono essere in grado di gestire la trasferibilità della conoscenza, la personalizzazione dei contenuti, il coinvolgimento pervasivo.
Nuove competenze. Gli HR dovranno essere in grado di rendere “continui e sinergici” i processi di gestione delle competenze e delle conoscenze, sia all’interno sia all’esterno di percorsi istituzionali, non solo per le risorse umane, ma prima di tutto per sé stessi. In un mercato del lavoro – ma potremmo dire in un mercato della conoscenza – come quello attuale, non esistono più, e non esistono solo, le competenze tecniche e specializzate, ma esiste la necessità di attribuire senso e significato alla realtà, alle relazioni, alle situazioni: gli HR hanno il compito di innescare e facilitare questo processo, favorendo lo sviluppo di potenzialità latenti, che evolvono in competenze personali e situazionali, più che procedurali e tecniche.
Maturità digitale. Gli HR dovranno diventare perno e amplificatore di conoscenze tecnologiche applicate alle capacità cognitive, e diventare facilitatori per potenziare l’efficacia dei tradizionali processi di apprendimento e di agire organizzativo. Dovranno, di volta in volta, saper scegliere – e guidare le risorse umane nella scelta delle tecnologie più efficaci per lo sviluppo, la creazione e la condivisione della conoscenza.
Queste direttrici potrebbero essere i binari su cui gli HR potranno innovare il proprio ruolo, e conquistare una presenza attiva nella nuova cornice dei processi di apprendimento e della formazione nelle organizzazioni. D’altra parte anche gli HR sono lavoratori, e soggetti in continuo apprendimento, come le risorse che supportano. Ma saranno in grado di raccogliere la sfida?
* Michela Fiorese
Psicologa del lavoro, Senior Partner di Entropy KN, dal 2008 coordina diversi progetti europei di ricerca in ambito nuove tecnologie applicate alla formazione continua.
** Patricia Chiappini
PhD in Sociologia, si occupa di formazione e di ricerca in ambito organizzativo.