Descolarizzare l'apprendmento

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DISAFFEZIONE ALL’ISTRUZIONE

Le nuove generazioni, che circoscrivo genericamente senza ingessature alfabetiche, mostrano un’evidente disaffezione nei confronti di un'istruzione istituzionalizzata che risulta sempre più disallineata al loro bisogno di sapere. L’aumento del tasso di istruzione medio dei paesi occidentali sembra essere inversamente proporzionale alla qualità dell’apprendimento e si ipotizzano, a riguardo, ragioni derivanti dagli effetti distraenti dei social media, dall’inadeguatezza di alcuni docenti o dall’ipertrofia e scarso aggiornamento dei programmi di studio. Si perde di vista, però, un problema sistemico: la scuola, come istituzione, funziona sempre meno.

Le scuole sono basate sul presupposto che ogni aspetto della vita abbia il suo segreto; che la qualità della vita dipenda dalla conoscenza di questo segreto; che i segreti si possano apprendere solo in una sequenza ordinata; e che solo gli insegnanti possano svelarli nel modo giusto” (Ivan Illich, Descolarizzare la società (1970), Mimesis biblioteca, trad.it.2019, cit., p. 101). Ivan Illich preconizzava, più di mezzo secolo fa, la descolarizzazione della società, l’abbattimento delle istituzioni scolastiche e del correlato obbligo di frequenza da sostituire con un apprendimento diffuso, libero e informale. I rammendi riformistici, d’altra parte, nel loro tentativo di agganciare la scuola alla vita e di incardinare la vita nel mondo professionale, hanno rimodellato un abito che tutti siamo pronti a riconoscere come scomodo, stretto, impresentabile e fuori moda ma che nessuno ha la capacità di strappare. Per molto tempo ancora, immagino. Quella di Illich è, senza ombra di dubbio, un’ipotesi estrema, straordinaria e prematura. Forse accadrà, ma quando? E nel frattempo?


LE EMOZIONI NON SI INSEGNANO

Nel frattempo, turbe di docenti e formatori entrano nelle scuole, nelle università, nelle aziende. Esperti che cercano di portare qualcosa di nuovo, di diverso, di extra-curriculare a ragazzi e ragazze che frequentano il liceo o che stanno imparando un mestiere.

Nel frattempo, da formatrice, ho lavorato sull’educazione emotiva in un lungo percorso con ragazzi e ragazze del quarto anno di una scuola secondaria di secondo grado.

Che significa educazione emotiva? Le emozioni non si insegnano, le emozioni si provano, si vivono, poi se ne parla. Emozione, ho pensato prima di entrare in classe, deriva dalla parola latina emovere, ossia spostare, agitare. Forse non è un caso il fatto che le prime emozioni che ricordiamo sono quelle che abbiamo provato nella prima infanzia, quando abbiamo spostato e lanciato oggetti e giocattoli e siamo stati conquistati dal meraviglioso stupore di essere soggetti capaci di far accadere qualcosa, di essere, proprio noi, agenti attivi che producono effetti concreti e visibili sull’ambiente circostante. Poi, nel tempo di incamminamento verso l’età adulta e in uno spazio di pochi metri quadrati, questi oggetti e questi giocattoli (che sono diventati parole, idee, soluzioni, proposte, innovazioni) ci vengono strappati di mano.

Vorrei provare a restituirglieli, è stata la conclusione del mio pensiero mattutino. Subito dopo aver raggiunto un buon livello di fiducia e confidenza ho restituito agli studenti la libertà di parola. E ho raccolto le loro voci sulla scuola, qui di seguito affastellate: “la scuola non ci lascia spazio per mostrare i nostri stati d’animo e siamo penalizzati nel voto di condotta quando mostriamo momenti di sconforto, disagio, asocialità, stati depressivi; la scuola non ti permette di concentrarti su te stesso; la scuola crea degli ostacoli che danneggiano la mia salute mentale; la scuola mi fa venire il mal di testa e il nervosismo; troppo stress, troppo da studiare, troppe verifiche e interrogazioni; troppe limitazioni; non abbiamo tempo per la vita sociale; non è questo [mostra il telefonino], è la scuola che ci fa ammalare!; faccio fatica ad aprirmi con i compagni; la scuola non lascia spazio per mostrare il vero io; mi toglie tempo più utile; troppi divieti; riuscire a trovare il sapere nascosto dietro tutte le difficoltà, il disorientamento, la confusione, la rabbia, è una vera sfida; la scuola è piena di persone che non abbiamo il tempo di conoscere, da una parte ti dà la possibilità di fare nuove amicizie ma questa possibilità ti viene tolta perché non c’è tempo per parlare, per stare insieme, per fare qualcosa con i propri compagni; viviamo nell’ansia e nello stress; troppi compiti e orari troppo lunghi”.   


NEL FRATTEMPO

Nel frattempo, ho riflettuto sulla mia ultima esperienza con gli studenti, sulle buone pratiche che hanno reso quegli incontri piacevoli, illuminanti, perfino utili. E ne ho tirato fuori delle linee guida non direttive, incomplete, inadattabili a tutti i contesti formativi ma da considerare come piccoli frammenti di cambiamento del rapporto tra docenti e discenti.

Usate la gentilezza. A piene mani. Sempre un po’ di più di quella che reputate sia sufficiente.

Concordate un patto d’aula che preveda regole diverse da quelle consuetudinarie. Non un sabotaggio ma un accordo intimo ed esclusivo.

Non abbandonate gli strumenti analogici (laddove possibile e senza sostituirli ex abrupto a quelli digitali). C’è una sorta di rinascita di interesse verso gli “strumenti austeri”, l’apprezzamento di una semplice penna e di un foglio di carta sul quale esprimere la creatività scrivendo o disegnando. I giovani sono tutti nativi digitali, la scuola, il lavoro, il tempo libero sono sempre più digitalizzati e gli strumenti analogici sono per loro innovativi quasi come lo erano per noi quelli digitali.

Mostrate un’adultità imperfetta. Apparire adulti di successo crea distanza e frustrazione. È pieno di eventi, seminari, webinar e conferenze in cui gli adulti raccontano la loro strada verso il successo. Non se ne può più. Se siete stati bocciati, se avete lasciato un lavoro perché non avevate le competenze adatte, se avete difficoltà a fare il caffè con la moka, raccontate come e perché.

Mostrate un’adultità ignorante. Fate sapere che non sapete tutto ma che sapete, come tutti, solo qualcosa.

Mostrate un’adultità curiosa. Curiosa di sapere dai ragazzi cose che non sapete. E non dimenticatevi di ringraziarli per ogni inattesa illuminazione conoscitiva.

Evitate i falsi interrogativi. Non fate domande per darvi delle risposte. Aspettare le risposte dai destinatari delle domande che, ragionevolmente, non siete voi.  

Stimolate l’azione. Agire, come ci ricorda Hannah Arendt, significa prendere un’iniziativa, iniziare, mettere in movimento qualcosa. Trovate il modo di far agire gli studenti in tempo reale, hic et nunc, aiutateli ad aprirsi a compiti inattesi e a imparare dall’esperienza.

Aiutate gli studenti a non confondere insegnamento e apprendimento. Spiegategli, cioè, che molte delle cose che direte saranno dimenticate e che aggiustare un motorino o cucinare una crostata è apprendimento.

Ribadite, con la giusta severità, che il tempo libero, l’ozio, la vita cittadina, la vita sociale, politica e familiare sono potenti veicoli d’apprendimento.

Esercitate la maieutica. Tirate fuori con vigore e olio di gomito.

Ascoltate con interesse sincero. Cosa significa lo sappiamo tutti, il problema è ricordarsi di farlo.

Evitate attività con esiti valutativi. Il più possibile.

De-progettate. Non usate un copione ma un canovaccio con tante parti libere in attesa di essere scritte a più mani.

De-programmate. Evitate programmi scolpiti sul marmo. Decostruite, riadattate, eliminate, aggiungete, rendete insomma il vostro programma il più duttile possibile.  

Promuovete un uso esplorativo dell’apprendimento che si fondi sul rapporto tra compagni e compagne che posseggono saperi ed esperienze unici, esclusivi e che meritano di essere condivisi. Non si tratta solo di facilitare la trasmissione di conoscenze tra pari (peer learning) ma di mantenere sempre vivo l’interesse per le persone e tra le persone. 

Non confondete la conoscenza della materia con la capacità di immaginare qualcosa di nuovo e di diverso. La conoscenza della materia è un mezzo, l’immaginazione è il fine. 

Favorite l’incontro, mettete insieme gli studenti attorno ai loro dubbi e alle loro domande senza risposta.

Diffondete la wanderlust, il desiderio della scoperta, la sorpresa per una domanda inaspettata che apre nuove prospettive e attrae nuove domande, l’estemporaneo, l’inatteso, lo stupore per l’inedito. 

Non sedate l’irrequietezza. L’irrequietezza è vitalità.

Nel frattempo, quindi, a noi docenti e formatori, rimane qualcosa che è a metà strada tra un’opportunità e un obbligo: cercare ogni mezzo, strategia e strumento che ci permetta di avvicinarci ai nostri studenti per lavorare insieme con una mentalità sempre più aperta e descolarizzata. Se lo meritano.

Il comitato redazionale

Myriam Ines Giangiacomo

Domenico Lipari

Giusi Miccoli

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